
ricordate il post del 19/6/06 in cui facevo riferimento a questo paradosso? Di qualche giorno fa le identiche parole riportate sul FOGLIO di Giuliano Ferrara
Il paradosso dei precari
di Giuseppe De Filippi
Il paradosso del mercato del lavoro italiano non è che ci sono tanti precari, ma che i precari guadagnano poco. Ho provato a chiedere la ragione di questa divergenza rispetto all’andamento che dovrebbe essere naturale e non ho avuto risposta. Al massimo mi sono sentito dire che la mia era un’osservazione di buon senso e con ciò la conversazione o l’intervista era troncata.
Ripartiamo dall’andamento naturale: un precario dovrebbe incorporare nel salario la sua precarietà. La flessibilità in entrata e quella, implicita, in uscita dovrebbero valere qualcosa. E anche la flessibilità nelle modalità di impiego, per orari e mansioni, dovrebbe trasformarsi in maggiori guadagni per i lavoratori. E infatti valgono qualcosa, anzi molto, per le mansioni di lavoro più alte, per i dirigenti. Non valgono niente, anzi ne appesantiscono le retribuzioni, per chi fa tutti gli altri lavori.
Allora c’è qualcosa che non torna. Per dare una spiegazione l’unico modo è provare a mettere paradosso contro paradosso, a rovesciare il problema. Magari usando una tesi iperliberale. Il punto è che a creare la debolezza dei precari è proprio il mito del posto fisso. La tutela fortissima offerta ai dipendenti assunti con contratti a tempo indeterminato funziona da polo di attrazione, è un traguardo che giustifica qualsiasi sofferenza. Gli anni del precariato vengono vissuti come una specie di accumulazione di crediti in vista di qualcosa da esigere domani. E’ l’obiettivo del posto fisso a giustificare i bassi guadagni, la flessibilità degli orari, la disponibilità per mansioni variabili e non propriamente individuate nei contratti. E quell’obiettivo influenza pesantemente chi si affaccia al mercato del lavoro. I datori di lavoro lo sanno e palesemente se ne approfittano. E questo vale anche quando il datore di lavoro è lo Stato.
Così nasce il paradosso del precario che guadagna poco. Sta lì e spera, accumula contratti con l’obiettivo dell’assunzione o con quello, minore, della possibilità di fare una causa di lavoro. Viste in questa logica le manifestazioni per strappare la stabilizzazione di rapporti di lavoro degli attuali precari hanno il ruolo, apparentemente deleterio, di rafforzare questa speranza dando ad essa un sostegno politico. E c’è da aspettarsi che il clima che si sta creando nel governo con gli apprezzamenti di Romano Prodi e Tommaso Padoa-Schioppa per la “bella manifestazione” di Roma contribuisca ulteriormente a tenere alte le aspettative dei lavoratori precari.
L’alternativa ovviamente è quella della maggiore flessibilità in tutto il mercato del lavoro, non solo nella fascia attualmente definita precaria. Con l’aumento della flessibilità in uscita, cioè della licenziabilità, si avrebbe meno interesse a vendersi in anticipo con anni di precariato in vista del sogno di un’assunzione che poi ci possa blindare per il resto della vita lavorativa. Nella parte bassa del mercato del lavoro, nella fase di inserimento, si rafforzerebbe la posizione del lavoratore e dell’aspirante tale. I contratti più facilmente potrebbero rappresentare solo il rapporto tra domanda e offerta di lavoro, premiando la flessibilità e la disponibilità e anche l’entusiasmo di chi comincia l’attività in azienda. La normalità dovrebbe riprendere il sopravvento, trasformando in soldi oggi la mancanza di tutela domani.
Più tutele, invece, portano più precariato e, cosa grave, lo rendono sempre più malpagato. Togliete le garanzie al posto fisso e, contro tutte le aspettative, ci saranno meno precari e guadagneranno di più.
da Il Foglio, 16 novembre 2006
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