
Un contributo dopo il sasso lanciato per la campagna 'assumi l'outbound'. Una nuova puntualizzazione su un cardine (spesso scardinato) della contrattualistica così come pensata dal prof. Marco Biagi. Un argomento dell'illegittimità, sebbene di rilevanza secondaria, è proprio "l'utilizzo all'interno dello stesso call center", e ne abbiamo avuto scottante prova di recente!
Capi, orari, retribuzione imposta. Il cocoprò è un contratto abusivo
di Eliana Como*
di Eliana Como*
E' ormai abbastanza noto che l'attività di lavoro in un call center può essere inbound o outbound. I primi sono generalmente quelli che gestiscono le chiamate in entrata, per fornire informazioni ai clienti; gli altri fanno telefonate in uscita, per televendite, informazioni promozionali e indagini telefoniche. Ai primi è stato riconosciuto, almeno dal punto di vista legislativo, lo status di lavoratore dipendente, mentre gli altri, devono ancora dimostrare di non soddisfare i requisiti di autonomia che renderebbero possibile l'utilizzo del lavoro a progetto. Requisiti che nella realtà, come dimostrano anche le ispezioni fatte finora, sono del tutto improbabili. Infatti, anche i datori di lavoro sanno benissimo che per chi fa televendite o interviste telefoniche non si riscontrano mai criteri di autonomia e che mai quei lavoratori possono essere considerati quasi liberi professionisti. Ciò sarebbe perlomeno inverosimile, perché chi sta al telefono non possiede gli strumenti di lavoro, non può quasi mai decidere liberamente orari e ritmi di lavoro, non ha modo di contrattare la retribuzione e, soprattutto, è sottoposto a un controllo disciplinare e a una organizzazione gerarchica. In questo senso, outbound o inbound non hanno condizioni di lavoro diverse, tanto più che molto spesso gli stessi lavoratori vengono utilizzati per campagne differenti all'interno dello stesso call center, per cui a volte ricevono la telefonata, altre volte la fanno. Le tecnologie informatiche registrano nel dettaglio tutte le operazioni e i relativi tempi di esecuzione del lavoro. Tutti gli operatori sanno che da un momento all'altro qualcuno può «entrare in cuffia» e verificare l'andamento della telefonata, anche quando questa è gia iniziata. Ciò significa che non viene controllato l'andamento di una intera telefonata, ma un pezzo di essa; non è giudicata la capacità dell'operatore di entrare in contatto con il cliente per vendergli un prodotto, quanto piuttosto la sua capacità di conformarsi alle indicazioni che vengono fornite passo dopo passo dalla direzione, eliminando ogni carattere personale. Dopo qualche ora di lavoro, ogni intervistatrice sa a memoria parola per parola cosa deve recitare al momento del contatto con il cliente, come deve porre ogni singola domanda, ringraziare e congedarsi. In questo senso, vendere una scatola di surgelati, promuovere un nuovo contratto o fare una intervista prendendo i contatti da liste di nominativi fornite dall'azienda non comporta certo un livello di autonomia superiore a quello di chi prenota un biglietto o dà informazioni a un cliente. D'altra parte, non è nemmeno vero che i lavoratori outbound abbiano più libertà di scegliere il proprio orario di lavoro. Anzi, essendo spesso pagati a telefonata utile, forse subiscono ancora di più orari e ritmi di lavoro. Infatti, quando pure gli orari non siano imposti dall'impresa, sono dettati direttamente dalla natura del lavoro svolto. Saranno cioè determinati dal fatto di trovare contatti utili a seconda del tipo di target cui è indirizzata la campagna o dal fatto - ancora più semplice - di trovare una postazione libera, per non dover perdere tempo invano e, come pure spesso accade a molti, per non dover tornarsene a casa. Per tutti, dunque, sia outbound che inbound, dovrebbe valere la regola che l'utilizzo del lavoro a progetto è illegittimo, perché maschera condizioni di dipendenza, utili solo all'impresa per abbassare i costi del lavoro e avere a disposizione manodopera ricattabile.
*Sociologa. Campagna per la stabilizzazione dei lavoratori dei call center. Inviateci la vostra storia.
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