mercoledì 10 agosto 2005

Che stress l'antistress!

Le best practices esportate all'estero vanno bene, e agli outsourcer del Bel Paese quando? Pensate un pò che a richieste di approfondimento in merito ad una relazione tenuta dal responsabile 'risorse umane' sulle tappe di gestione del primo semestre del primo semestre 2005, rivolte a vari responsabili di TIM, non ho mai ricevuto risposta...

L'azienda alla scoperta del benessere
Competenze personali del manager del benessere

«Quanto alle competenze personali, deve trattarsi di un grande ascoltatore capace di saper cogliere le esigenze del personale».
«Chi si occupa di benessere del personale deve essere dotato di competenze e professionalità variegate», aggiunge Ciro Di Cecio, responsabile risorse umane di Tim.
La compagnia di telefonia mobile del gruppo Telecom Italia ha realizzato un programma, denominato «I care» per garantire un bilanciamento fra vita privata e vita lavorativa delle risorse umane, che si traduce in presidi sanitari interni agli uffici, aree benessere con palestre, centri anti-stress e fisioterapia, asili-nido e aree di caring. «Il benessere in ufficio diventa fondamentale in un'azienda che investe molto sulla professionalità delle proprie risorse», aggiunge Di Cecio. «Tim è composta da persone con un'età media di poco superiore ai 30 anni, di cui il 50% sono donne». E le persone che la società impiega nel settore wellness vengono soprattutto «dalla divisione risorse umane, perché devono aver maturato esperienza nella gestione del personale, oltre a mostrare fiuto nel selezionare e identificare i bisogni. Per svolgere questa professione», conclude Di Cecio, «è necessaria cultura universitaria, con preferenza per le discipline psico-pedagogiche o legali».
E opportunità si aprono anche per chi vuole fare un'esperienza all'estero: «Stiamo esportando le best pratices nelle nostre controllate estere», aggiunge, «per cui sono avvantaggiate figure che sanno coniugare le qualità già citate, con la conoscenza della lingua del Paese in cui saranno chiamato a operare e anche una conoscenza base delle normative del luogo».
Ma non sono tagliati fuori da queste opportunità neanche i professionisti con formazione di tipo scientifica. Come dimostra il caso di Sun microsystem. Il gigante dell'Information technology ha affidato al suo facility manager, Fabio Tedesco, il compito di assicurare il benessere dei dipendenti nel progettare gli spazi della nuova sede italiana del gruppo. «Abbiamo distribuito tra i dipendenti un questionario per raccogliere consigli sul viver ben in ufficio», spiega Tedesco, architetto, «quindi abbiamo agito di conseguenza nell'organizzare gli spazi, puntando su colori caldi, sedie e scrivanie confortevoli, la giusta illuminazione». Strategie che mirano a superare quello che unanimemente viene ormai riconosciuto come «mal d'ufficio».
Tanto che uno studio dell'Unione europea ha rilevato come il 33% delle persone che lavora in ufficio è affetto da mal di schiena, il 23% da dolori muscolari al collo e alle spalle, mentre il 28% è vittima dello stress e un altro 23% accusa un senso di affaticamento generale.
Sun ha poi predisposto una serie di servizi aggiuntivi, «come il servizio di catering, che tiene in considerazione anche le esigenze dei vegetariani e di chi segue una dieta dissociata». Per svolgere l'attività di addetto al benessere, secondo Tedesco, sono perciò necessarie «competenze tecniche, unite a un approccio umanistico ai problemi e alle esigenze.
Il professionista in questione deve sapersi interfacciare con le altre risorse presenti in azienda, a cominciare da chi si occupa delle risorse umane e chi gestisce il budget».
E per chi vuole intraprendere la carriera di manager del benessere dopo aver completato gli studi universitari, esiste un master organizzato dalla Fondazione «Aldini Valeriani» di Bologna in «Human resource development», ovvero in sviluppo della persona nelle organizzazioni.
Rivolto a laureati di tutte le facoltà, con qualche eccezione per i non laureati già al lavoro, offre una formazione che spazia dalla gestione delle risorse umane alle teorie dell'organizzazione pubblica e privata, passando per la psicologia del lavoro, le tecniche di selezione e la comunicazione.

Autore: Luigi Dell'OlioFonte: ItaliaOggi Sette - 18 Aprile 2005

Profondo scoramento

dal blog di nico lamattina (consulente indipendente in comunicazione e nuovi media) riprendo e appoggio in pieno le riflessioni riportate:


Il 20 luglio 2005, ho assistito a una tavola rotonda sull’outsourcing organizzata dall’Associazione Nuovi Lavori. L’incontro era moderato da Massimo Mascini (Il Sole 24 Ore) e vi hanno partecipato Luciano Scalia (direttore risorse umane e organizzazione del Gruppo Cos), Paolo Pirani (segretario confederale della Uil), Giorgio Santini (direttore confederale della Cisl) ed Enzo Mattina (vicepresidente di Quanta). Tra i vari interventi, quello di Luciano Scalia ha fatto esplicito riferimento all’outsourcing nel settore del customer care. In estrema sintesi:
le aziende ricorrono all’outsourcing per la gestione delle attività non-core, ossia di quanto non attiene alla missione aziendale, con l’obiettivo di ottimizzare i costi, tant’è che l’affidamento in outsourcing avviene normalmente con gare al ribasso;
le componenti di un sistema di customer care sono la tecnologia e il personale, per cui la competitività di chi fa outsourcing si misura sulla sua capacità di contenere i costi dell’infrastruttura tecnologica e della gestione del personale. Di conseguenza, la stragrande maggioranza di chi lavora nei call center è assunta con contratti a progetto.
Ovviamente, la presenza dei tre sindacalisti ha spostato l’attenzione sulle tutele ai lavoratori, ma a me sembra più interessante notare un altro aspetto. Trovo infatti paradossale che un’azienda consideri la relazione con il cliente un’attività non-core e la affidi all’esterno al miglior prezzo possibile. E’ pur vero che le aziende – soprattutto quelle che producono – non sono abituate a gestire il rapporto con i propri consumatori e ricorrono da sempre a intermediari; tuttavia, c’è una differenza sostanziale tra come vengono percepiti un negoziante e un addetto al call center. Il primo, infatti, ha un’identità autonoma rispetto alla marca di cui vende i prodotti e i suoi comportamenti influenzano l’immagine di ciò che vende solo parzialmente. Chi risponde al numero verde, invece, è a tutti gli effetti un rappresentante diretto della marca e il suo comportamento influisce senza mediazioni sulla percezione che ne ha il cliente. Come fa un ragazzo o una ragazza con un contratto precario, che lavora in una struttura in cui l’unica cosa che conta veramente è il contenimento dei costi e che, magari, non hai mai provato il prodotto di cui parla, a farsi portavoce della marca con un cliente? A difendere il prodotto quando c’è un problema? A farsi carico del quesito del cliente, cercando comunque una soluzione per risolverlo, magari andando al di là di una rigida procedura informatica? Non è un caso che la maggior parte dei customer care cui ci dobbiamo rivolgere quando abbiamo un problema con un prodotto siano irritanti e di poco aiuto.