
Contrattazione collettiva, attività ispettiva, accordi sindacali...
Quello che è emerso dalle "trattative" legate alla regolarizzazione dei contratti a progetto nel mondo dei call-center è che non è possibile continuare ad utilizzarli laddove non sia obiettivamente dimostrabile l'autonomia della prestazione lavorativa.
Non è più possibile, quindi, stipulare contratti a progetto con i lavoratori se il progetto stesso non esiste, oppure coincide con l'attività principale dell'impresa/datore di lavoro.
Non è più possibile in tutta Italia.
Volendo guardare indietro, dovremmo prendere le mosse dalla "legge Biagi".
La vituperata legge sanciva un mutamento del mercato del lavoro (della forza-lavoro) sentito e necessario al superamento della crisi lavorativa; crisi determinatasi a causa dell'eccessiva "sindacalizzazione" dei principali comparti produttivi italiani.
In Francia un'analoga crisi aveva portato alla proposta di legge sul "contratto di primo impiego" (l'equivalente del nostro contratto a progetto), ma i nostri "colleghi" d'oltralpe hanno preferito manifestare la propria disapprovazione per un tipo di contratto che, in ragione della necessaria flessibilità del mercato del lavoro, diventa regula di prevaricazioni economiche e previdenziali a danno del lavoratore, determinandone il famigerato stato di precarietà.
Ne è derivata una sollevazione generale: la Francia non applicherà il contratto di primo impiego.
Ad oggi, in Italia, i risultati di studi statistici sul costo della vita, sull'attualizzazione del costo del denaro per i mutui e sulle nuove soglie di povertà, confermano il fallimento dell'esperimento co.co.pro. dal punto di vista economico su larga scala.
Il co.co.pro non ha restituito i risultati attesi: ci si aspettava un aumento globale dei consumi, dovuto all'aumento del livello di occupazione, ma, in realtà, tale esperimento nasceva morto.
Aumentare il livello di occupazione, dando la possibilità ai contraenti di svincolarsi dalle tutele insite nella contrattazione collettiva, ha causato uno squilibrio tra prestazione lavorativa e livelli salariali, a discapito di quello che giuridicamente viene identificato come soggetto debole nel rapporto lavorativo: il lavoratore.
Prescindendo ora da considerazioni "etiche" sul rapporto lavoratore/datore di lavoro e sulla bontà del contratto a progetto, è opportuno spostare l'accento sull'aspetto giuridico che fa da fulcro alla querelle dei call-center.
Il punto di partenza, come accennato, è la legge Biagi.
In virtù degli artt. 61 e 69 del decreto legislativo 276/2003 (la norma che disciplina i contratti a progetto) ogni rapporto di lavoro instaurato senza l'individuazione di uno specifico progetto, oppure non riconducibile ad alcun progetto, deve considerarsi rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione.
Di più, l'art. 61 al comma 4 prevede la possibilità di applicare clausole di contratto individuale o di accordo collettivo più favorevoli per il collaboratore a progetto.
Quest'ultima previsione, forse dettata da un "ravvedimento operoso" del legislatore, ha senz'altro lasciato intendere fin dall'inizio che la tipologia contrattuale del co.co.pro sarebbe stata utilizzata ben al di là della mera individuazione di un genuino progetto.
E' come dire: "c'è bisogno di creare maggiore flessibilità contrattuale, ma è meglio porre comunque un argine ai possibili abusi del co.co.pro".
Sulla base di questo assunto, in ambito nazionale si è già provveduto (entro il 30 aprile) a sanare quelle situazioni in cui il contratto a progetto è stato abusato, o utilizzato in modo illecito: dal punto di vista formale, il codice civile parla di SIMULAZIONE; pertanto, per evitare un carico ecessivo di giudizi vertenziali, è stato utilizzato lo strumento della conciliazione.
Per ogni palese violazione della legislazione sul lavoro (e, quindi, per ogni uso illecito del co.co.pro) si è data la possibilità al datore di lavoro di "patteggiare" con i lavoratori al fine di convertire il contratto a progetto nella formula più adeguata del contratto subordinato a tempo indeterminato; fatte salve la possibilità di gestire gli orari in turni (part-time) - che non fossero comunque peggiorativi rispetto alla precedente turnazione - e di versare le quote INPS pregresse a scaglioni, in modo da ricostruire la posizione contributiva in modo regolare.
Quest'ultima ipotesi è oggetto dell'art. 178 dell'ultima Legge Finanziaria.
Laddove si è raggiunto un accordo con i Sindacati e le parti sociali, è stato possibile dare seguito agli atti conciliativi su base collettiva.
Resta sempre possibile, però, avvalersi del citato art. 61, comma 4.
Questo significa, sostanzialmente, che ciascun lavoratore può concordare singolarmente una "conciliazione" con il datore di lavoro, sempre che riesca a spuntare condizioni contrattuali migliori, o comunque non meno favorevoli rispetto alla contrattazione collettiva.
Il nodo della questione è proprio questo: condizioni più favorevoli al lavoratore.
La proposta di conciliazione presentata da Datacontact prevede la stipula di un contratto a tempo determinato di 24 mesi, con decurtazione dello stipendio del 20% nei primi 12 mesi e del 10% nei secondi 12.
Analizziamo i due fattori principali: durata e retribuzione.
DURATA
Il contratto a tempo determinato durerà 24 mesi per due motivi:
*24 mesi sembra essere la durata della commessa TIM/Telecom
*24 mesi è il limite minimo di durata per i contratti "sanati" a tempo determinato
Inoltre l'orario lavorativo non potrà essere inferiore alle 6 ore e 40 al giorno.
E non dovrà neppure superarle: i turni lavorativi, così come congegnati, imporranno di lasciare immediatamente il posto ai turnisti succesivi, senza possibilità di lavoro straordinario.
La decurtazione dello stipendio (possibile solo per il CCNL Terziario - Distribuzione e Servizi) è un palese "scippo" del salario legale, operato soltanto per permettere al datore di lavoro di "rientrare nel budget" delle conciliazioni.
La decurtazione è stata giustificata con il dichiarato intento di "redistribuire le somme trattenute (illegittimamente) agli operatori sotto forma di incentivi alla produttività in misura massima pari al 15%".
Questo significa che l'azienda taglia il 20% del meritato stipendio al lavoratore, per redistribuirlo fino al 15% come incentivi.
L'assegnazione degli incentivi riguarda solo i lavoratori più "performanti": ciò significa che chi non regge ritmi stressanti non solo si vede "tagliare lo stipendio" in modo illegittimo, ma non percepirà neppure quel 15% di denaro a cui ha diritto.
A conti fatti, percepire tredicesima e quattordicesima mensilità servirà soltanto a livellare per l'azienda la differenza di costo tra co.co.pro e tempo determinato, e per il lavoratore a non accorgersi della palese ingiustizia operata a suo danno.
Tutto questo in nome della "flessibilità".
Ciascuno sia artefice del proprio destino.
1 commento:
Grazie a Dio, ho firmato oggi la conciliazione rinunciando al contratto Datacontact.
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