Intervista a Paola Pierantoni, responsabile
sportello sicurezza Cgil Genova e coordinatrice della ricerca "Call centers.
Idee per un cambiamento".
di Federico Pace
Perché i call center al centro dell'attenzione?
E’ un settore trasversale a tutti i settori di lavoro in cui però c’è una grandissima difformità di condizioni. Si va da realtà dominate dal tempo pieno a tempo indeterminato a quelle in cui c’è solo il contratto a progetto. Con modalità organizzative diversissime. Profili professionali misteriosi. E’ un settore in cui non esiste una contrattazione organica dei livelli professionali, delle modalità organizzative, dei diritti di base. Il fatto che si spacci come lavoro autonomo a progetto un’attività che è regolata nei minimi dettagli è perlomeno buffo.
Non c’è un po’ di autonomia per chi fa attività di telemarketing?
Le liste dei clienti vengono date dall’azienda, le telefonate vengono sparate in cuffia con un sistema automatico che cerca i numeri. Alle persone arrivano in cuffia anche i fax con i conseguenti problemi di salute per le scariche di rumore pesante.
Insomma, quello dei call center continua a essere un grande buco nero…
A Genova abbiamo osservato grandi realtà, significative da un punto di vista occupazionale con più di cento dipendenti in una situazione in cui la dimensione media di impresa è molto più piccola. Eppure tutto è ancora ai margini dell’attenzione.
Cosa avete scoperto?
Abbiamo trovato un nesso evidente tra chi lamenta più frequentemente una relazione tra il proprio benessere psicologico e il lavoro e chi avverte in maniera molto più rilevante tutta una serie di disturbi (dalla secchezza oculare ai sensi di vertigine). Ci sono dei sintomi di tipo fisico causati o esaltati da uno stato di tensione e malessere di tipo psicologico, per lo stress della chiamata ma anche dallo stress della demotivazione. E' un viluppo. Gli elementi salute e sicurezza sono intrecciati molto profondamente con i fattori organizzativi.
Dove si sta meno peggio?
Noi abbiamo riscontrato una differenza sensibile di minore disagio professionale nel call center delle Poste perché lì vige un sistema di programmazione e rotazione tra le mansioni in maniera non discrezionale. E questo aiuta. In altre realtà invece avviene in termini discrezionali e diviene un elemento di disagio perché non si capisce il criterio per cui qualcuno viene rotato e altri no.
E per i tempi di durata delle telefonate?
Nei centro di inbound, ovvero dove gli operatori rispondono alle chiamate, si sta meglio dove le telefonate non sono soggette a un tempo massimo. Perché devono comunque giungere alla conclusione del problema. Gli operatori sentono quasi che il loro lavoro non è “perduto” nel nulla.
Ci sono altri esempi?
Nel call center delle Poste, anche se gli operatori hanno i tre minuti di tetto massimo a telefonata, il fatto di avere fatto una formazione migliore, di ruotare su mansioni diverse, lavorare in un ambiente progettato ad hoc rende le cose più accettabili. Ma per la gran parte, ci sono molti problemi per la rumorosità eccessivia e altri fattori che peggiorano un lavoro già difficile.
Quali sono i percorsi di carriera?
Quello del tutor è l’unico scalino di progressione di carriera a vista e anche i tutor guadagnano veramente poco più degli operatori, saranno cento euro in più al mese. In realtà il tutor ha un ruolo di guardiano non molto significativo. E’ una scala gerarchica brevissima e questo attraversa anche le realtà strutturate come Telecom o H3G.
Quasi la metà del vostro campione ha più di quarant’anni. Cosa sta succedendo?
Da un lato l’età elevata è legata alle riorganizzazioni aziendali di persone che vengono trasferite da altri posti ai call center. Ma nelle aziende di telemarketing, ci sono molte persone di quarant’anni che sono finite a fare questo lavoro perché gli andata male altrove (il negozietto che è fallito, chi ha dovuto lasciare un lavoro altrove) oppure donne che avevano lavori anche più interessanti ma che le occupavano più tempo.
Quali sono le storie che avete raccolto?
Fa un po' effetto scoprire questo mondo di quaranta-cinquantenni che continuano ad andare avanti con contratti rinnovati di sei mesi in sei mesi che dicono "speriamo di fare sufficienti attivazioni". E chi ha problemi di voce non va a lavorare e pensa addirittura che sia ovvio non essere pagata quando è costretta a rimanere a casa. O una donna ci ha raccontato che le è capitato sotto gli occhi la busta paga che prendeva prima. E ci ha raccontato che ha chiesto al marito di toglierla via che non la voleva più vedere.
Rispetto a quello che succedeva nei posti di lavoro della "vecchia fabbrica" quali sono le differenze?
Questi sono posti di lavoro dove non ci sono possibilità di incontrarsi. Gli addetti non mangiano insieme, hanno un quarto d’ora di intervallo in cui devono andare a gabinetto, mangiare e bere. Gli orari di lavoro che mutano continuamente durante la settimana e attraversano l’orario del pranzo. Non c’è un momento di socializzazione. Il lavoro è totalmente individuale. Persino nella catena di montaggio, per quanto alienante e orribile, ognuno era vicino a un collega che faceva un altro pezzetto, tutti insieme facevano dei pezzetti. Qua invece non c’è nemmeno il proprio posto di lavoro. Non ci si può nemmeno sistemare la foto del gatto. Uno arriva, guarda qual è la posizione libera e nella prima ci si siede. Non si ha nemmeno una relazione con il posto di lavoro. E nemmeno con il “vicino”.
In sostanza l’accordo nazionale firmato nel 2004 tra Asscallcenter e sindacati è fallito?
Non so cosa succede fuori da Genova, ma questo accordo dice che entro dicembre 2007 sarebbe stato "stabilizzato" il 60% degli operatori. Con delle gradualità. Adesso, sono passati due anni e se guardo gli operatori con la cuffia in testa di Call & Call a Genova, dai dati aziendali, mi accorgo che a progetto sono il 95% degli operatori. E poi tutta questa storia dell’autonomia è quella che abbiamo visto. La maggiore flessibilità è spiegabile in una fase di avvio, ma dopo un po’ diventa inspiegabile. C’è gente che sta lì da quattro o cinque anni. Assocallcenter (uno dei fondatori è A.Tosto) intanto è sparita.
Su cosa si può intervenire per migliorare le condizioni di lavoro?
La mansione è quella che è, si parla con qualcuno che non si vede, con la cuffia in testa e in certi casi non si sa come la chiamata è iniziata o come si chiuderà. Stante questo, si possono ruotare le mansioni in modo programmato su tutti gli addetti. In Poste dove questo succede i benefici ci sono. Le persone possono avere un poco di autonomia nella gestione delle telefonate. Il limite della durata della conversazione condiziona la qualità di risposta ed è un fatto di disagio rilevantissimo. Poi si deve fare qualcosa per le condizioni ambientali, specialmente questi posti di telemarketing affittano degli uffici e ci mettono dentro un po’ di postazioni. Questi luoghi vanno progettati sapendo che questa gente lavora in un dato modo. In Poste lo hanno fatto, ma altrove non hanno progettato nulla. Ma non basta, sottoponiamo queste persone a una sorveglianza sanitaria per i problemi che realmente hanno, daimogli na formazione continua anche di tipo ergonomico. E poi, paghiamoli di più.
La Repubblica Lavoro, giovedì 08 giugno
2006
Nessun commento:
Posta un commento