mercoledì 21 giugno 2006

Funzioni strategiche

Intervista a Giovanna Altieri, direttore Ires-Cgil e autrice dell’indagine "Lavorare nei call center: un'analisi europea"
 
Call center, troppi passi indietro
di Federico Pace

Quali sono le condizioni italiane rispetto agli altri paesi europei?
Condividiamo di certo l’articolazione molto differenziata. Ci sono le agenzie di telemarketing, i call center aziendali in-house. I piccoli e i grandi call center, e all’interno dei piccoli call center ci sono quelli che svolgono attività molto specializzate con condizioni di lavoro e i livelli di soddisfazione, e i piccoli call center che invece sono l’ultima catena del “conto-terzismo” dove l’attività e la commessa che il call center riesce a spuntare è tutto giocato sul fattore del costo del lavoro. In Italia però abbiamo qualche criticità in più.
Ci faccia qualche esempio?
I call center in outsourcing sono relativamente più localizzati nel Sud Italia. Grazie ai contributi europei molti imprenditori hanno delocalizzato l’azienda in queste aree dove tra l’altro è molto diffusa l’esternalizzazione. Sono frequenti i casi di poca chiarezza tra intrecci proprietari, ambiguità tra esternalizzazione e internalizzazione di servizi e appalti pubblici. Come il caso del call center costituitosi in Sardegna grazie ai fondi regionali che poi ha chiuso lasciando a casa centinaia di ragazzi o l’episodio in Sicilia di un call center che ha chiuso per riaprire nella stessa città licenziando lavoratori a tempo determinato e assumendone con un’altra azienda con contratti a progetto.
Quali sono le ultime evoluzioni del settore?
L’età media di chi ci lavora sta crescendo. Sia perché si afferma il settore, sia perché i lavoratori rimangono. Sta crescendo in alcune realtà critiche del Sud e anche a Roma abbiamo adesso una presenza di lavoratrici intorno ai quarant’anni. C’è una quota significativa di donne adulte che hanno subito una prima esclusione dal mondo del lavoro e che poi sono rientrate. Non ci sono stati miglioramenti, c’è stata una forsennata rincorsa a una efficienza giocata sulla fabbrica dei minuti. Si è cercato di standardizzare il più possibile con una tecnologia facilitatrice del lavoro umano. Questo paradossalmente toglie ancora più peso alle capacità e rende i lavoratori più sostituibili.
Eppure è un settore strategico per le imprese…
Abbiamo in comune con il resto d’Europa anche la dinamica esponenziale del settore che attiene allo sviluppo delle nuove tecnologie, alla cultura del customer care, alla vendite differite. Ovunque questo settore è diventato l’interfaccia delle imprese con i clienti. Non è più soltanto l’acquisizione di nuovi clienti è tutta la cura del cliente.
Non c’è una contraddizione tra l’importanza del settore e le condizioni di lavoro?
Non si fa nessun investimento sulle persone nonostante sia una funzione strategica. Per cui noi abbiamo che il call center è impostato tutto sulla tecnologia, si dovrebbe superare questa visione e valorizzare anche le capacità della forza lavoro in una chiave più strategica. In questo momento il lavoro nei call center è fortemente strutturato e non consente di acquisire nessuno skill aggiuntivo.
E' per questo che c’è un turnover altissimo?
Questo è tipico di tutti i paese europei. L’unica strategia individuale che i lavoratori possono avere è quella di “uscire”. Registriamo dei tassi di mobilità molto elevata. Questa è una strategia aziendale di gestione del personale. Accanto alla flessibilità implicita nell’alto turnover c’è una flessibilità contrattuale diffusissima, una flessibilità temporale totale. Visto che ai lavoratori viene richiesta una disponibilità al part-time e ai turni.
Eppure, quasi paradossalmente, sono molti quelli che domandano di entrare a lavorare nei call center. Come si spiega?
In qualche modo il settore esercita un’attrattiva forse legata anche alla rappresentazione sociale del lavoro che hanno i giovani che accettano il lavoro nei call center mentre ne snobbano altri che magari stanno in gradini più bassi della gerarchia sociale ma che garantirebbero loro una retribuzione superiore. Questo lavoro nei call center è pure sempre un lavoro da colletto bianco che mette in rapporto con le nuove tecnologie. E’ un po’ un’attrazione fatale.
Quali sono le prospettive?
Non voglio essere negativa, ma la logica che sta prevalendo non fa sperare bene. Rispetto ai processi di professionalizzazione quello che viene messo in luce da qualcuno è che quanto più si diffonde l’interattività, tanto più si possono offrire dei servizi con dei contenuti professionali migliori. Forse, la cosa positiva, ed è già qualcosa, è che ora c’è maggiore consapevolezza sul problema della precarietà come condizione critica che produce effetti sociali molto gravi.
 
Repubblica Lavoro, giovedì 08 giugno 2006

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